Tartuficoltura, attenzione alle truffe e alle promesse di facili guadagni

Alzi la mano chi possiede un fondo agricolo in collina in stato di semi-abbandono e non ha mai fatto un pensierino alla tartuficoltura. Grazie all’interesse sempre crescente manifestato dagli chef verso i tartufi, la promessa di guadagni facili da realizzare in terreni marginali, ovviamente, desta parecchio interesse. Ma proprio per evitare cocenti delusioni, è bene fare chiarezza.
E cominciamo con quei tartufi che in Italia attualmente vengono prodotti anche in tartufaie artificiali. Ecco i nomi: Tuber melanosporum (nero pregiato), Tuber aestivum (estivo), Tuber borchii (bianchetto o marzuolo), Tuber aestivum forma uncinatum (uncinato), Tuber brumale forma moschatum (moscato), Tuber brumale (nero invernale), Tuber macrosporum (nero liscio) e Tuber mesentericum (nero ordinario).

C’è poi il bianco pregiato (Tuber magnatum) di cui però le esperienze di coltivazione non hanno dato risultati incoraggianti. Le zone vocate per la sua coltivazione ottimale sono estremamente limitate: il tartufo bianco non si adatta facilmente ed è ancora più esigente di altre specie per quel che riguarda le caratteristiche chimico fisiche del terreno. Inoltre, nei rari casi in cui si riesce ad avviare una coltivazione, per avere una produzione degna di nota, si devono aspettare anche 15 anni.

Ogni anno in Italia vengono vendute tra 120 e 130 mila piante tartufigene che vengono utilizzate per centinaia di nuove tartufaie per un totale difficilmente individuabile ma che secondo le stime degli studiosi coprono tra i 300 e i 900 ettari. In alcune regioni è stato deciso di sostenere finanziariamente l’impianto di nuove tartufaie con i fondi del Piano di Sviluppo Rurale.
La tartuficoltura non è come la frutticoltura dove le rese sono facilmente determinabili. Domizia Donnini, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’Università di Perugia avverte: «È difficile conoscere le reali produzioni delle tartufaie coltivate ed è altrettanto difficile rapportare la quantità di prodotto per superficie di tartufaia coltivata. Ci si deve, dunque, accontentare di informazioni desunte dalle testimonianze dei tartuficoltori (sempre che siano attendibili, ndr.) che affermano di avere raccolto anche dai 60 a 150 chilogrammi di prodotto nelle tartufaie coltivate a tartufo nero pregiato e tartufo estivo. Più basse, secondo quanto affermano i tartuficoltori, le rese del bianchetto, del tartufo nero liscio e del tartufo moscato che arrivano a qualche decina di chilogrammi».

Chi intende intraprendere la non facile strada della tartuficoltura deve anzitutto abbandonare l’idea che una volta messe a dimora le piantine ci si può dimenticare di loro e che basta solo avere la pazienza di aspettare qualche anno per potere raccogliere i preziosi funghi sotterranei. Niente di più sbagliato.
Soprattutto nei primi anni le piantine devono essere oggetto di cure speciali che vanno dalle lavorazioni del terreno all’irrigazione, soprattutto se ci si trova in territori o periodi siccitosi: all’inizio della coltivazione, infatti, il micelio potrebbe morire per assenza di acqua nel suolo. Nelle tartufaie che dopo l’impianto non vengono mai più sottoposte a interventi colturali, infatti, la competizione operata dalla vegetazione erbacea ed arbustiva incrementa l’aridità del suolo, e in genere provoca la morte di molte piante simbionti e il nanismo di quelle sopravvissute.
Una raccomandazione, poi, riguarda i consulenti spesso più interessati alla vendita delle piantine tartufigene che alla riuscita dell’impianto. Non c’è da fidarsi troppo di tecnici che si autodefiniscono esperti e che promettono facili guadagni con la tartuficoltura. Sono più affidabili quelli prudenti che pongono l’imprenditore di fronte a una serie di dubbi, interrogativi e riflessioni. Prima di decidere se è il caso di correre il rischio di realizzare una tartufaia è necessario che un bravo e coscienzioso tecnico effettui lo studio della zona analizzando clima, orografia, vegetazione prevalente, vocazionali del luogo, colture precedenti, possibilità di irrigazione e infine, ma non in ordine d’importanza, analisi del terreno.
Già due soli dati – il pH e il calcare attivo del suolo – dovrebbero far propendere o meno verso l’investimento. Tutti i tartufi di interesse commerciale, infatti, crescono in terreni a reazione alcalina con pH che va da 7,2 a 8,2. Solo il Tuber borchii e il Tuber aestivum possono svilupparsi anche in terreni a reazione sub-alcalina e perfino neutra.
Nei terreni da dedicare alla tartuficoltura non deve mancare mai il calcare attivo che è molto importante per evitare la competizione con altri funghi micorrizzici di nessun interesse per la produzione di tartufi. Infine è da escludere l’impianto di piantine micorrizzate in zone dove il suolo presenta una elevata percentuale di argilla che, per permettere lo sviluppo dei tartufi, non deve superare il 30-32 per cento. Graditissima ai tartufi, invece, una certa percentuale di scheletro che rende permeabile e alleggerisce la granulometria del terreno.

Se tutte le condizioni necessarie allo sviluppo dei funghi micorrizici tartufigeni ci sono, l’altro problema da affrontare è l’acquisto delle piantine micorizzate. Qui si entra in una giungla perché l’unica certificazione capace di fornire garanzie sulla effettiva micorrizzazione – cioè che l’inoculo del tartufo abbia dato ordine alla simbiosi tra piante e micelio del fungo tartufigeno – è quella fornita da laboratori autorizzati e in genere afferenti alle Università. Gli operatori prelevano campioni a caso e fanno l’esame microscopico delle radici per individuare eventuali abbozzi di tartufo. Il risultato positivo deve riguardare almeno l’85% dei campioni prelevati.