Il nuovo testo stabilisce, infatti, il limite inferiore di residuo di acido fosforoso pari a 0,05 mg/kg, al di sopra del quale un prodotto non può essere certificato come biologico, mentre da rilievi fatti in numerose imprese e cooperative produttrici di ortofrutta e vino, sarebbe stato auspicabile adeguare il limite ai 2 mg/kg, come avviene nel resto d’Europa.
L’inadeguatezza dei nuovi limiti viene confermata dalla deroga al suddetto decreto ministeriale, che è presente nel Dl Semplificazioni e riguarda i soli residui fosfitici nelle coltivazioni del nocciolo e della frutta secca nelle aree vulcaniche. Tutto ciò, osserva la Cia, non giova alla chiarezza di un quadro normativo che non tutela le imprese agricole bio, a rischio declassamento per prodotti involontariamente contaminati da fosfiti.
In particolare, Cia non concorda con la decisione di prendere il solo acido fosforoso come indicatore dell’utilizzo di sostanze non ammesse e ricorda come le fonti “nascoste” di residuali di questo acido siano fertilizzanti e prodotti fitosanitari autorizzati nell’agricoltura biologica. Altre fonti sono i residui di trattamenti fatti anni prima della conversione in biologico, oppure sono legate a processi metabolici spontanei della coltura.
Secondo l’organizzazione professionale agricola occorre, dunque, gestire con la massima attenzione un problema che rischia di frenare lo sviluppo di un comparto che vede una continua crescita di vino e ortofrutta biologica per la forte domanda dei consumatori. Per questo, conclude Cia-Agricoltori Italiani, sarebbe necessario sostenere un progetto scientifico che definisca una metodica analitica in grado di distinguere l’acido fosforoso da fitofarmaci non ammessi nel biologico e sia, allo stesso, tempo in grado di definirne i tempi di degradazione, poiché tali contaminazioni perdurano anche diversi anni dopo l’applicazione nelle colture arboree.